Dal giornale online RMF stralciamo questo articolo del nostro concittadino
Edoardo Zin, che pubblichiamo a un mese dal triste avvenimento di Morosolo.
Redazione Casciagonews
“Una sola cosa possiamo fare: stringerci attorno alla
famiglia” – ha detto don Stefano alla
comunità di Morosolo radunata in chiesa per l’Eucarestia della festa
dell’Immacolata.
Il
pensiero è andato subito a quella famiglia. La pietà ha preso il posto al
chiacchiericcio, la compassione all’eccitazione della curiosità. Restava forte
la voglia di conoscere, di capire, ma davanti al profondo, umano disagio non
potevamo altro che restare in silenzio. Forse, potevamo tentare di comprendere
nel senso etimologico della parola: “con-prendere”,
prendere con noi, nel nostro cuore e custodire lo strazio di una moglie e
madre, il cruccio dei figli.
“Come può succedere questo?” – ci chiedevamo. La risposta è venuta da don Stefano,
non solo pastore, ma profondo conoscitore dell’animo umano: “Sì, può succedere”.
Nel
guazzabuglio del cuore umano albergano odi e rancori, gioie miste a dolori,
messaggi di speranza e di disperazione.
Tutto
è avvenuto in un contesto tranquillo e pacifico, pervaso da tradizioni
secolari, in un intreccio fatto di rifiuto del cambiamento e di resistenza a
manifestare i conflitti, da un senso religioso che anima una comunità cristiana
sempre più sparuta, in un ambiente medio-borghese, dove il danaro viene
accumulato non per frenesia del possesso, ma per mandare avanti una famiglia,
nel narcisismo di tanti e piccoli gruppi che operano sì per fare il bene, ma in
cui ognuno tiene l’altro in un clima di autoreferenzialità senza futuro.
A
scuola i ragazzi sono contenti perché il divertimento e il gioco sono più
grandi della fatica che forgia un carattere. I genitori sono felici perché i
loro pargoli lì socializzano: fuori dai cancelli non si ritroveranno più per
giocare liberi e spensierati, programmati come sono tra la lezione di judo,
piscina, corso di danza, catechismo e squadra di calcio, tanto più che abitano
lontani gli uni dagli altri e il loro stare assieme avviene soltanto tra i
banchi di scuola.
“Come può succedere questo?” Perché ci chiediamo questo solo quando televisione,
giornali ed internet parlano del nostro piccolo mondo? Non sappiamo che l’aria
del pianeta – oltre che da smog – è inquinata da violenza portata anche qui dai
mass-media: quella degli stadi, della guerra in diretta, dei lanci dei massi
sull’autostrada, dei processi ai “mostri”, dei video-giochi fondati sulla
eliminazione di qualcuno o di qualche cosa.
È
così che nasce la diffidenza per il diverso. Per quello venuto da fuori: una
volta i “polentoni”, più tardi i “terroni”, adesso i neri e i “forestieri”,
quelli che “non sono di qui ma di Sant’Eusebio”.
La
paura allora porta alle relazioni umane effimere, alla chiusura della
comunicazione.
L’uomo,
bisognoso innanzitutto degli altri e dell’Altro, tenta di fuggire da questa
realtà ed elabora strategie per sottrarsi da questa povertà: per molti il paese
è solo un dormitorio dove riposare alla fine di una giornata stressante. In
famiglia si vive tra armistizi e riconciliazioni e poi di nuovo tra altre
aggressioni in un circolo vizioso che rinforza l’inimicizia. I figli crescono
con la tendenza al distacco non dentro
la famiglia, ma contro la famiglia.
Chi deve studiare, evita di farlo, aumentando il pressapochismo e il
superficialismo del sapere giovanile che è sconvolgente. Il tempo libero si
passa davanti a internet o sul tablet dove il mercato incontrollato delle
immagini tende a sopraffare l’uomo e dove la frammentazione delle sequenze
infierisce sul sistema cognitivo. Il figlio viene misurato dai “punti” che è il
rendimento scolastico e se i genitori lo rimproverano, anziché incoraggiarlo, il
fragile mal sopporta la frustrazione e si instaura in lui la delusione e lo scoraggiamento
che si ripercuotono a loro volta sui genitori.
Questi
devono rappresentare la legge con l’autorevolezze che proviene dal loro affetto
e non con l’autoritarismo. Esercitino la disciplina, fonte di grande e
autentico amore perché i figli vogliono essere corretti, soprattutto con la
coerenza di vita piuttosto che con le parole.
“Come può succedere questo?” Perché tutti noi, chi più, chi meno, siamo fragili,
perché la nostra povertà interiore ci fa soffrire, perché spesso cerchiamo
qualcuno che ci aiuti a scrutare, a riconoscere anche le nostre colpe, atto
fondamentale per una tranquillità dell’animo. Molti questo “qualcuno” non lo
trovano, alcuni si affidano a Dio, pochi a un prete.
Cercare
la morte è un’enorme sofferenza perché la volontà di vivere, che è presente in
ogni uomo, viene soppiantata e sconfitta.
Eppure
chi si toglie la vita desidera essere felice, specialmente dopo che Cristo ha
lanciato un messaggio inquietante ed incisivo secondo il quale è necessario che
il grano di frumento, affidato alla profondità silenziosa, fredda e oscura
della terra, si decomponga e muoia perché risorga a nuova vita.
Ecco
perché non giudico né condanno Giuseppe. Dovrei giudicare e condannare me. Non
posso però non pensare che Giuseppe sia stato accolto tra le braccia
misericordiose del Signore. In me, uomo, giustizia e pietà non possono andare
d’accordo: o sono giusto o sono pietoso. Dio, invece, è al tempo giusto e
pietoso: questa è misericordia.